Giorgio Caproni è nacque a Livorno il 7 gennaio del 1012 è morì a Roma il 22 gennaio del 1990.Nel 935 consegue il diploma magistrale e si trasferisce a Roma.Combatterà la Seconda guerra mondiale ma in seguito diventerà partigiano in Valtrebbia, sull’Appennino Ligure.Tra i suoi punti di riferimento il Poeta Umberto Saba.La sua prima opera è la Silloge intitolata “Il passaggio di Enea”.
“Che cos’è la gloria?
Questa è proprio una domanda a cui non so rispondere. Non sono un santo…”
“La vita, una volta che è data, non la si può togliere. Chi non la desidera, non la dia. Tanto più che dando una vita non è che si faccia, da un punto di vista non-cristiano, un grosso regalo. Perché la vita è più sofferenza che gioia: a maggior ragione, quindi, non bisogna stroncarla. Semmai, bisogna cercare di aiutarla.”
“ Vorrei aver speso meglio quella che Machado chiamava la monedita del alma. ”
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa
Alba
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rinfresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dormi, ora che in vece la tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.
Generalizzando
Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi, né che sia.
Soltanto ne conserviamo
pungente e senza condono
la spina della nostalgia.
A Rina
Senza di te un albero
non sarebbe più un albero.
Nulla senza di te
sarebbe quello che è.
L’essenza della rosa
Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.
Per lei
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
Questo odore marino
Questo odore marino
che mi rammenta tanto
i tuoi capelli, al primo
chiareggiato mattino.
Negli occhi ho il sole fresco
del primo mattino. Il sale
del mare…
Insieme,
come fumo d’un vino,
ci inebriava, questo
odore marino.
Sul petto ho ancora il sale
d’ostrica del primo mattino.
Perché restare
Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io bada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciare me stesso uscire
da me stesso come,
dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.